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L’ultimo saluto a Sinisa

Manuel Minguzzi

In prima fila, all’uscita del feretro, Mancini e Stankovic, poi subito dietro Arnautovic e De Silvestri, mentre i duemila facevano partire cori e fumogeni, il più famoso ‘e se tira Sinisa è gol’, in relazione alle innumerevoli punizioni che Miha infilata con maggior precisione addirittura dei rigori. C’erano gli striscioni della curva laziale e di quella nerazzurra, ma anche le sciarpe rossoblù di chi lo ha ammirato da vicino nel momento più difficile, che è anche quello che rimane più impresso.

Bologna è diventata la sua città, non solo per il conferimento della cittadinanza onoraria ma per quanto le due entità, Sini e Bologna, si siano toccate, abbracciate e amate. Pellegrinaggi, preghiere, cori, tutto quello che Bologna poteva fare per combattere assieme a lui l’ha fatto. Non c’era solo il legame professionale, perché dieci anni dopo, quando Sinisa ha saldato il suo debito salvando un Bologna a rischio, si è palesata quella malattia che è sempre un pugno allo stomaco, una infame battaglia in cui non ci sono guerrieri e vili ma solo vincitori e vinti sulla base, più che altro, della fortuna. C’è chi ce la fa grazie alla scienza, c’è chi invece perde pur non avendo mai mollato. E l’esempio di Miha è proprio questo: chi non ce la fa non significa sia debole. Il suo più grande insegnamento, dunque, ce lo ha dato da vivo ma rimbomba con prepotenza proprio ora che non c’è più.