editoriale

Stadi di proprietà e Salary Cap: la ricetta vincente per una nuova Serie A

Campionato fermo, ma il pensiero corre. Una soluzione personale per innalzare il livello del campionato italiano, anche in ottica europea.

Matteo Ragazzi

La pausa colpisce ancora. In maniera spietata. Vorrei trattare gli avvenimenti di questi ultimi giorni a Parigi, ma sono densi di risvolti politici e ideologici di cui non amo occuparmi, almeno in questo spazio. Forse sarebbe una scelta corretta, ma la sovra esposizione mediatica e di opioni rischierebbe di stancare ben presto i nostri lettori. Il foglio bianco di office grida vendetta, e in questo momento non vorrei nemmeno occuparmi di schemi, partite, tattica e undici titolare: semplice, da raccontare avrei poco e niente.

Scrivo, penso, cambio. La ristrutturazione del Dall'Ara mi offre lo spunto – almeno iniziale - che cercavo, in un editoriale che tratterà anche l'ingresso di un possibile Salary Cap per contrastare l'inefficacia, o la farsa, del Fair Play Finanziario. Un passo alla volta. Ne approfitto subito per ringraziare quei geniacci di “Calcio&Finanza” (seguiteli perché ne vale davvero la pena), molti dati statistici da loro forniti si fondono perfettamente con i miei sogni di rivoluzione calcistica.

Il calcio italiano, passo dopo passo, riprende vigore e batte colpi importanti a livello europeo. Troppo poco, per adesso, per ricominciare un nuovo percorso d'orato che proietti la Serie A nel cuore dell'èlite mondiale. Il campionato di Serie A 2015/2016 è riuscito nell'impresa di perdere pubblico (quasi il 2%), leggasi alla voce spettatori paganti: potremmo definirlo effetto Carpi/Frosinone. Le matricole abbassano notevolmente la media spettatori, un dato in controtendenza se paragonato ai maggiori campionati del Vecchio Continente che invece godono di un aumento generale del 1,3%. Le piccole del nostro campionato affossano il contesto economico-finanziario: in Germania l'ultima della Bundesliga, Ingolstad, supera i 14mila biglietti venduti a partita, mentre in Inghilterra il Watford penultimo si assesta costantemente su un livello di 20.000 presenze, meglio di almeno 11 società italiane. Marketing, sponsor e merchandising sono la diretta conseguenza del degrado degli stadi nostrani: non si massimizzano i guadagni e il fatturato precipita, in un momento storico in cui le entrate commerciali rappresentano un fattore vitale per il salto di qualità in ambiti nazionali ed europei.

La Juventus ne è l'esempio lampante.

Seguo costantemente ed in maniera assidua l'NBA, la particolarità che mi colpisce maggiormente è l'opportunità di ricambio ai vertici: gli ultimi classificati possono contare su scelte più alte al draft, selezionando in questo modo i migliori giocatori in uscita dai college (o dai campionati esteri). Un modello non importabile in Italia ed in Europa, ma lo stesso non si può dire del Salary Cap. Una strada per ritrovare competitività e una gestiona più sana e corretta dei club. L'ideale sarebbe un sistema di ridistribuzione salariale, in modo da ridurre la forbice tra big e medio-piccole in modo da aumentare il livello generale del camponato, sempre più abbandonato al proprio destino. Come funziona? Semplice: impostare un limite massimo entro cui devono sottostare tutte le squadre partecipanti, regolando i contratti in fasce salariali correlate agli anni di esperienza. Ciò che mi affascina particolarmente, è la presenza di una Luxury Tax (chiedere a Prokhorov, proprietario dei Nets). In poche parole: se fissi il Salary Cap a 100 milioni, e dispensi stipendi per 150 milioni, la squadra sarà costretta a pagare una multa, il cui ammontare sarà dato dalla differenza tra totale distribuito e il tetto fissato. Denaro che non andrebbe perso, perché ridistribuito a tutte quelle società virtuose in grado di rispettare i parametri stabiliti. In puro stile NBA.

Una soluzione per aumentare la competitività totale ed evitare altri casi Parma, una democrazia calcistica in piena regola. Utopia? Sicuramente. Troppi interessi in ballo, ma io voglio crederci.